INTERVISTA A LORENZO CASTORE
di Daniela Silvestri (2014)

Nella tua carriera di fotografo alterni reportage documentaristici a lavori più “intimisti”, come “Notebook” e “Present Tense” in cui emerge quasi il bisogno di una “biografia fotografica”, di raccontare un rapporto più personale e diretto con la fotografia. Com’è nata l’idea di questi lavori?

Credo che tutto sia biografia fotografica, almeno per come io intendo quello che faccio, anche gli assegnati e il cosidetto corporate. Cerco di avere un rapporto personale con tutto quello che faccio. Parlando di lavoro ‘mio’ nel senso stretto non sto a pensare in che tipo di categoria fotografica si collochi, cerco di fare quello che mi pare necessario e di trovare il modo migliore per condividerlo con gli altri. La mia intenzione è di usare la fotografia per dire certe cose invece che esserne usato, ovvero diventare la caricatura del fotografo che fa quello che ci si aspetta da lui perchè si è affermato attraverso quello. La differenza tra lavoro intimistico o di reportage non ha molto valore, ci sono serie di fotografie che toccano, fanno pensare, emozionare, riflettere e altre che non lo fanno. Oggi fare belle fotografie è diventato abbastanza facile, siamo talmente bombardati di immagini che avere un gusto estetico formale per l’immagine è più che in passato patrimonio comune, il problema è avere contenuto e a questo contenuto dare una forma nuova che non significa strana o forzatamente originale ma semplice, diretta, forte, adatta a quello che si vuole comunicare agli altri e alla nostra personalità. Notebook è il titolo che ha una mostra fotografica che a distanza di anni presento alla Libreria s.t. di Roma con cui abbiamo ormai questa consuetudine ma le fotografie li esposte fanno comunque parte di Present Tense che è una specie di diario che porto avanti da quando ho cominciato con la fotografia ed è un contenitore vastissimo.

Il tuo lavoro “Nero”, realizzato nel Sulcis, nasce da un progetto sulla memoria, la memoria di un territorio e dei suoi abitanti. Pensi che la fotografia sia importante per raccontare storie che spesso rimangono lontane dai riflettori dei media tradizionali?

Nero è in effetti un lavoro su commissione che nasce dal rapporto con il territorio attraverso la fotografia che è per me un grande risultato quando si parla di condivisione. Questa è la storia: l’Istituto Polacco di Roma supporta e presenta una mostra sulla Slesia e il lavoro che avevo realizzato li dove le miniere avevano un ruolo centrale ( sono molto affascinato e legato alla figura del minatore di carbone, socialmente e simbolicamente), Loris Campetti su indicazione di Valentino Parlato viene a vedere la mostra e scrive un bellissimo articolo su Il manifesto, Tore Figus che è il presidente della Società Umanitaria ( fondazione che lavora allo sviluppo dell’arte audiovisiva sul territorio del Sulcis-Iglesiente) legge l’articolo e viene dalla Sardegna a vedere la mostra a Roma e mi chiede di portarla a Carbonia dove mi invita a realizzare un lavoro dandomi completa libertà d’azione e d’interpretazione. Nel frattempo mio padre si ammala di cancro alla gola per il quale verrà operato, io rimango con lui e quindi qualche mese fermo. Appena finita l’emergenza comincio a lavorare a Nero, passo lunghi periodi a Carbonia che è una città di fondazione nata lo stesso anno di mio padre e quando sono li giro questa terra stupenda con tante cose nella testa, nel cuore e nello stomaco. Avevo trent’anni che è un’età acerbissima per un fotografo e venivo da fotografie a colori della notte di Havana e Città del Messico… Ho raccontato questa storia per dire in pratica cosa intendo in relazione al rapporto con la memoria, il personale e l’universale, il rapporto con gli altri, la coincidenza e la necessità di avere cose da dire in relazione all’esperienza reale della nostra vita. Queste sono le cose che mi stanno a cuore, queste sono le cose di cui mi devo preoccupare. Non posso decidere a tavolino cosa è più conveniente o cosa seguono i media tradizionali: per essere credibile e creduto, per rispettarmi ed essere rispettato devo fare quello che è importante per me e che magari diventa interessante anche per gli altri. La fotografia è importante come qualsiasi altro mezzo artistico divulgativo per raccontare quello che ci sta a cuore.

Hai viaggiato molto nel tuo lavoro: India, Cuba, New York, Albania, Kosovo, Polonia etc.: quanto questo ha influito nella tua professione?

Diciamo che non ho esattamente un rapporto risolto con la stanzialità o il concetto di casa, anche se ci lavoro. In ogni caso non me ne lamento, è la mia storia e va bene così. Forse tutto questo movimento ha influito più sulla mia vita personale che non sulla professione. La ‘mia’ fotografia per me non è un lavoro ma si fonde con la vita. La fotografia-mestiere è un’altra cosa, fa sicuramente altrettanto parte della mia biografia e mi insegna tanto ma sono due cose che tengo separate anche se cerco di fare entrambe nel modo migliore che posso. Se decido autonomamente di andare nel posto x a fare la cosa y prendendo i miei rischi e i miei tempi non può essere la stessa cosa che andare nel posto x a fare la cosa y se me lo chiede qualcuno per i suoi motivi e mi paga per questo. Non è né meglio né peggio, ma è sicuramente diverso.

Nei tuoi lavori alterni il colore a un bianco nero molto intenso, quasi onirico. Cosa ti spinge a scegliere l’uno piuttosto che l’altro per i tuoi reportage?

Dipende dalla storia e da quello che vorrei dire. Uso diversi formati fotografici a seconda dei casi e anche il bianco e nero o il colore. A volte uso testi o didascalie e altre no. Recentemente ho usato una telecamera digitale per fare un documentario e un’altra volta il Super 8. Dipende. Non sono ossessionato dalla tecnica fotografica ma cerco di non farmi troppo limitare dalla sua ignoranza: la forma è molto importante per trasmettere un contenuto, non basta l’intenzione.

Affianchi all’attività di fotografo quella di docente in corsi e workshop. Quanto è importante per chi fa questo lavoro il confronto e la possibilità di continuare ad imparare e aggiornarsi?

Considero la ricerca la parte più importante del mio rapporto con la fotografia e con la crescita personale, non sentirmi sicuro di quello che faccio è uno dei capisaldi di quello che faccio, mi fa stare nel presente e divertire, godere, imparare. Confrontarsi è importante in tutto e quindi lo è moltissimo anche nella fotografia. Spesso ho la sensazione di imparare più io dagli studenti che non loro da me, mi succede quasi sempre. Altre volte oppure allo stesso tempo però ho la sensazione – soprattutto con i giovani nelle scuole – che fermo restando quello che imparo io, loro vogliano più sapere come si fa a fare un libro e a campare di fotografia che non capire come scavarsi dentro per valutare quello che vogliono comunicare all’esterno e se veramente esiste qualcosa oltre all’ansia di fare un lavoro all’apparenza facile e interessante. Il percorso fa paura e invece è la cosa più bella che c’è, altro che risultati. Il risultato è una variabile di cui non ci si deve preoccupare troppo se c’è energia e un modo interiore potente che vogliamo tirare fuori. Bisogna imparare il/un mestiere e poi concentrarsi sulla vita vera: così la vedo io, per quello che può contare.