ELOGIO ALL’INCOERENZA
di Irene Alison (2010)

Lorenzo Castore ha vissuto molte vite. Una ha i colori pastosi dei sogni. L’altra il bianco e il nero profondo di certi incubi. Una ha la grana polverosa dei ricordi. Un’altra ancora, i contorni sfumati delle illusioni. Il suo sguardo, esercitato nell’arco di oltre quindici anni di lavoro in numerosissimi progetti, ha la capacità mimetica di reinventarsi ogni volta sull’oggetto del racconto, facendo di lui un fotografo riconoscibile ma non facilmente definibile. Nato a Firenze nel 1973 con occhi sensibili fino alla spietatezza, ha scelto di condurre la sua ricerca documentaria lontano dalle rotte del foto-giornalismo, grattando via la superficie del visibile e scavando fino all’intima sostanza delle cose. I due libri fin qui pubblicati – Nero (Federico Motta Editore, 2003) e Paradiso (Peliti Editore, 2005, distribuito in sei paesi e premiato con il Leica European Publishers’ Award) – offrono una misura di quanto eclettico sia il suo guardare: dal buio denso delle miniere di Carbonia, solcato di fasci di luce tesi come lame, ai fuochi fatui delle note cubane, in cui il caldo e il sudore impastano i colori fino a renderli liquidi, materici, lascivi. La sua fotografia si muove in bilico tra reale e surreale, apertura all’imprevisto e rigore nell’osservazione, severità nell’approccio e profonda empatia con i soggetti che sceglie: case, disabitate eppure affollate da molte presenze (come quelle ritratte nell’arco di cinque anni nel progetto Ultimo domicilio). Innamoramenti imprevisti, come quello che lo lega a Ewa e Piotr Sosnowski, fratelli polacchi la cui vita e la cui appassionata entropia Lorenzo ha scelto di documentare nel progetto video- fotografico No Peace Without War. Donne, molte, di cui non vuole raccontare la storia, ma che emergono nelle foto dalle pieghe di un lenzuolo, dalle notti di qualche città straniera. E ancora altri incontri casuali (le cui immagini nutrono il suo progetto in progress Moving, Pathetic & Ridicoulos) tra le vie di New York, di Parigi, di Roma, di Cracovia, fortuiti incroci o prede di lunghi inseguimenti in cui Lorenzo si affanna a inseguire se stesso. Perché, nelle sue mani, la macchina fotografica è uno strumento per guardarsi dentro guardando fuori. E per scrivere la propria biografia sul corpo degli altri.

Attraverso quali esperienze si è formato il tuo immaginario?

Durante la mia infanzia ho seguito mia madre nel suo lavoro: lei veniva da una famiglia molto tradizionale, ma dopo la separazione da mio padre ha cominciato a lavorare alla Valtur. Sono passato dalla sobrietà della mia casa di famiglia alla surrealtà dei villaggi. Questo mi ha reso un bambino piuttosto precoce, perché mi sono dovuto adattare a molte cose diverse: entro gli 8 anni avevo cambiato tre città e un numero indefinito di scuole e di case. Sono figlio unico e mi sono sempre sentito più adulto degli altri bambini, quindi non avevo nessuno con cui condividere le impressioni sulla mia vita nomade. Credo che la mia infanzia, strana e bellissima, abbia influito in maniera determinante nel mio modo di guardare il mondo.

Quando questo immaginario ha cominciato a tradursi in immagine fotografica?

È stata una cosa improvvisa. Non mi ero mai interessato alla fotografia durante l’infanzia e l’adolescenza. Al catechismo mi avevano spiegato il concetto della trinità: Dio è uno e trino. Non capendo assolutamente cosa significasse, l’ho interpretato a modo mio: ciascuno ha in sé una parte di divino che se la vede con le altre, ciascuno ha una missione da compiere. Io, quindi, dovevo trovare la mia. Da quel momento sono stato ossessionato da questa ricerca. Le ho provate tutte, giocavo a pallone e volevo fare il calciatore, mi piaceva disegnare e cominciai a studiare disegno. Poi, a 18 anni, ho avuto la rivelazione che aspettavo: la fotografia.

Come è successo?

In quegli anni vivevo a Roma, ma spesso tornavo a Firenze nei fine settimana. Non avevo molti amici, passavo il tempo passeggiando per la città da straniero. Una volta, arrivato alla Galleria Alinari, decisi di entrare a vedere una mostra, Exils di Josef Koudelka. Rimasi stupefatto: la fotografia che avevo visto fino a quel momento, tutta presa dallo sforzo di comporre la realtà per come si mostrava, mi aveva sempre annoiato. Le foto di Koudelka, invece, erano perfette dal punto di vista stilistico, ma erano anche animate da una profonda coscienza: il suo era uno sguardo che trascendeva la realtà, riusciva a parlare di un mondo simbolico e surreale ritraendo il mondo, reale: pura fotografia punk. All’uscita della mostra, avevo capito cosa fare della mia vita: non volevo fare il fotografo, volevo riuscire a parlare dell’invisibile attraverso il visibile, come Koudelka. Per farlo, oltre che imparare a fotografare, bisognava avere una visione, diventare un uomo che non ha paura di crescere, che sa trovare il mistero nella semplicità: non sarò mai in grado, pensavo. Da quel punto in poi, ho organizzato la mia vita in maniera scientifica per raggiungere questo obiettivo, nella quasi certezza di non riuscire: mi sono iscritto alla facoltà di Legge per darmi un’alternativa, ho cominciato a cercare una scuola di fotografia per imparare la tecnica.

Dopo Koudelka, quali sono state le ispirazioni che hanno influito sulla tua formazione come fotografo?

Penso che per la formazione di un uomo, e di un fotografo, sia necessario attingere da tutti i linguaggi. Ho comprato tanti libri di fotografia, August Sander, Robert Frank, Diane Arbus, Anders Petersen, fotografi e persone che hanno segnato l’evoluzione del mio sguardo, ma credo che la lettura di Dostojevskji, Camus, Joseph Roth, Sebald, Reneé Guenon, sia stata altrettanto fondamentale. Poi molta musica, che è la mia forma d’arte preferita. Cinema: soprattutto Kubrick, Cassavetes e Herzog. Tanta pittura: Rembrandt, soprattutto. Tutto questo è confluito nel mio immaginario, ma poi ho imparato anche che se pensi troppo alle tue ispirazioni rischi di perdere l’immediatezza.

Chi è stata la prima persona che ti ha insegnato qualcosa sulla fotografia?

Non ho mai cercato maestri, all’inizio volevo solo imparare a usare la macchina. Il mio maestro l’avevo già trovato in Koudelka, ora si trattava di trovare il mio modo. Ho incontrato un bravissimo fotografo di studio, Alberto Incrocci, e ho passato con lui due anni imparando la tecnica necessaria. La fotografia mi dava la possibilità di andare ovunque, di vivere tutte le vite che volevo. Facevo di tutto, anche le cose più umili, per imparare ed espiare la mia ambizione eccessiva: partite di tennis, assistente nei matrimoni. Poi andavo alla stazione vestito da barbone a cercare di fare i miei scatti. Mi ero costruito un’imbracatura con la macchina fotografica sul petto, nascosta dietro a una giacca con un buco all’altezza dell’obiettivo. Cercavo, cercavo ma non arrivavo mai al punto…

Quando hai scattato la prima foto che ha fatto la differenza?

A vent’anni a New York, inseguendo ostinatamente un uomo bassissimo vestito di nero che si portava dietro un enorme sacchetto. Era il 1993. La successiva foto degna di nota l’ho scattata quattro anni dopo. Decisamente un ritmo poco incoraggiante…

E qual è stata la seconda?

Durante un viaggio in India. Ero nella stradina di un piccolo villaggio in mezzo alle montagne e all’improvviso ho visto una figura passare davanti a un drappo rosso: mi sono girato e ho scattato in maniera del tutto incosciente. L’esatto opposto della prima foto: a New York avevo ostinatamente inseguito un uomo fino a realizzare lo scatto che cercavo, in India mi trovavo in una condizione di apertura a tutto quello che mi succedeva intorno, e questa foto mi è capitata. Credo che la mia fotografia sia in equilibrio tra questi due estremi: l’apertura verso l’inaspettato e la costanza nella ricerca.

Nel 1999 sei partito per il tuo primo viaggio di lavoro, nel Kosovo in guerra. Come è maturata questa scelta?

Mi ero appena laureato, ero finalmente padrone del mio destino, una cosa che aspettavo da quando avevo 8 anni. Stavo cercando di capire che tipo di fotografia volessi fare, e come vivere di fotografia. Decisi di confrontarmi con la guerra e mi avvicinai al Kosovo grazie a un amico che lavorava con una Ong. Arrivai a Tirana, e mentre ero lì furono aperti i confini: tutti i kosovari rifugiati in Albania tornavano nel loro paese, mentre tutti i kosovari di etnia serba fuggivano in Serbia. Io volevo a tutti i costi entrare in Kosovo: era pericoloso, ma non me ne rendevo conto, volevo solo andare. Mi infilai in un taxi di kosovari e varcai la frontiera.

Cosa hai trovato lì?

Arrivai in una cittadina non distante dal confine, Prizren, e trovai una situazione assurda: un monastero serbo ortodosso, pieno di zingari e di anziani serbi che non riuscivano a tornare in Serbia e che si nascondevano terrorizzati dalla vendetta dei kosovari albanesi che stavano rientrando. Decisi di fotografare solo nel monastero: mi sembrava una storia interessante, una lettura diversa da quella corrente. Ho passato lì il mio ventiseiesimo compleanno, brindando con delle bottiglie di vino rosso scovate nella cantina. Poi, pochi giorni dopo, sono tornato in Italia, ho fatto stampare le foto e le ho mostrate a Gianni Giansanti. Gli piacquero moltissimo, e mi diede una mano a mandarle in giro: Stern le prese in visione, ma non le pubblicò, le mandammo al Corriere della Sera, che però le ritenne contrarie alla propria linea editoriale. Ci rimasi molto male: la guerra era stata emotivamente durissima per me, parte dei fotografi che avevo incontrato mi erano sembrati sciacalli, e le foto che avevo fatto cercando una storia che si discostasse dai binari del già visto non era vendibile. Ho capito allora che quello non era il mio tipo di fotografia. Non ci credevo. Non avevo le motivazioni giuste per dedicarmici. Da quel momento in poi ho provato ad accantonare “i fatti”, a discostarmi dalle rotte del foto-giornalismo.

Cercando itinerari lontani da queste rotte sei arrivato a Gliwice, in Polonia, una tappa fondamentale del tuo percorso fotografico. Com’è nato il tuo rapporto con questo luogo?

Dopo il Kosovo ho deciso di andare in un posto dove era successo tanto, ma dove non succedeva più niente. Di andare, e di restare. Cercavo un luogo dove poter rintracciare le origini dell’Europa, che mi raccontasse qualcosa in più di quello che sono, che siamo. La guerra, le radici cristiane, le macerie del comunismo, l’industrializzazione europea. Gliwice è la città dove si è verificato l’evento che ha fatto da detonatore alle Seconda Guerra Mondiale: l’attacco, orchestrato dall’esercito nazista, a una stazione radio tedesca. In più è una città mineraria, e io sono sempre stato affascinato dalla figura del minatore. Sono riuscito ad avere il supporto dell’Istituto di Cultura Polacca in Italia per andare lì e ci sono rimasto due anni, a camminare, a entrare e uscire dalle miniere, senza un soldo e senza far vedere le mie foto a nessuno. Ho seguito le tracce di un mondo che stava scomparendo. E ho cominciato a fare qualcosa che non ho ancora finito di fare.

Come sei riuscito poi, a vivere di fotografia?

Seppi che uno studio di architettura stava cercando un fotografo che seguisse i lavori di costruzione del Teatro degli Arcimboldi: mi hanno scelto, mi sono trasferito a Milano, ma potevo gestire il mio tempo abbastanza liberamente, continuando ad andare in Polonia, viaggiando quando potevo. Poi, subito dopo l’11 settembre, sono andato a New York. Girando intorno a Ground Zero, ho casualmente trovato una porticina del cantiere aperta e sono entrato, trovandomi esattamente al centro del cratere. Ho fatto appena in tempo a scattare qualche rullino e a nasconderlo prima che la polizia mi cacciasse. Con quel lavoro, sono entrato in Grazia Neri. In realtà, però, non mi sono mai sentito a mio agio a districarmi nel mercato: l’indipendenza per me è sempre stata una condizione fondamentale. Ho sempre vissuto con quello che capitava a seconda del momento e non ho mai avuto la necessità di trovare conferme in un gruppo o in un ambiente.

Il passo successivo è stato entrare nell’Agence VU’, nel 2003. Come è successo?

Su sollecitazione di Michael Ackerman sono andato a Parigi per far vedere le mie foto a Christian Caujolle. Mi hanno preso al primo incontro. Dopo quattro mesi esponevo alla Galerie VU’ insieme a Stanley Greene. I primi anni a VU’ sono stati un’esperienza eccezionale: ho avuto la possibilità di incontrare fotografi di ogni parte del mondo – tra i migliori – e di avere finalmente dei referenti che capivano quello che cercavo di fare.

Sei entrato a VU’ con Paradiso, lavoro realizzato a Cuba nel 2002 e poi pubblicato in un libro nel 2005. Com’è nato questo progetto?

Dopo molto bianco e nero, Paradiso è nato dalla mia esigenza di mettermi alla prova con il colore. Non sono arrivato a Cuba con le idee chiare, l’unica cosa che sapevo è che avrei trovato delle belle luci notturne e che non avrei fotografato sigari e macchine anni ’50. È stata la prima volta che ho lavorato in maniera del tutto libera, senza cercare di andare incontro ai gusti di chi pubblica. Avevo deciso di fare quello che mi pareva in modo radicale. È stata una lezione importantissima, perché mi ha convinto che fare quello che senti è sempre la cosa giusta.

Paradiso ha cambiato il tuo rapporto con il colore?

Il colore ha cominciato a interessarmi perché lo associavo molto di più alla pittura che alla fotografia. Ma lavorando a Paradiso mi sono reso conto che, per me, deve essere un elemento espressivo dominante e non decorativo, altrimenti lo trovo inutile.

Paradiso ha segnato anche uno dei momenti più intensi della tua amicizia e della tua collaborazione creativa con Michael Ackerman. Quanto la sua vicinanza ha influenzato la tua fotografia?

Il mio rapporto con Michael è cominciato molto tempo prima, forse prima ancora che ci incontrassimo. Lui era stato prima di me a New York e in India, poi ho saputo che aveva cominciato a lavorare in Polonia, dove anche io lavoravo da qualche tempo. Ci dovevamo incontrare. E’ successo a Milano, al vernissage della sua mostra di Fiction. Vedendo gli scatti di quel lavoro, io ebbi la sensazione di riconoscere in un ritratto sfocato un mio amore appena finito. Gli chiesi chi fosse la ragazza della foto ma lui non mi rispose. Più lui era evasivo, più io diventavo nervoso. Poi, a un certo punto, mi guardò negli occhi e mi assicurò che quella non era una donna, ma un uomo. Da quel momento, abbiamo cominciato a diventare amici. Ci siamo aiutati e influenzati a vicenda, abbiamo vissuto e lavorato insieme. Siamo due persone molto diverse ma abbiamo tanto in comune per inclinazioni, gusti e interessi. E’ stato il primo amico vero con cui ho potuto confrontarmi sulla fotografia e, partendo da quello, su tanto altro.

Dopo Paradiso sei tornato al bianco e nero con Nero, realizzato nel 2003 è diventato un libro nel 2004.

Ho iniziato a lavorare a Nero poco dopo una grave malattia di mio padre. Gli sono stato accanto nei mesi di ospedale, e poi, appena si è ripreso, mi sono immerso in questa storia: un viaggio a Carbonia, città mineraria fondata in Sardegna nel 1938, il suo anno di nascita. Un’esplorazione di un ambiente arido, abbandonato, cadente, alla ricerca di un passato e di uomini che stanno sparendo. Doveva essere un progetto su un luogo, nato su commissione, ma è diventato qualcosa di più, perché la ricerca autobiografica si è fusa con quella documentaria. Nero è un viaggio metafisico, un modo di entrare in contatto con certi miei nodi.

Al centro di questo viaggio c’è la figura del minatore. Che cosa ti attrae in questo archetipo?

Più che in chiave sociale, questa figura mi è sempre interessata in chiave simbolica: è l’archetipo dell’uomo che lotta contro l’oscurità, contro la natura. Ho scelto di fotografare i minatori sempre e solo con la luce del mio casco perché mi interessa il loro rapporto col buio. I ritratti dei minatori sono alternati a dei paesaggi realizzati in maniera molto semplice, come fossero gli appunti di un urbanista che fotografa i reperti di un luogo che è stato tra i polmoni energetici d’Italia e che oggi è uno scavo di archeologia industriale. Se Paradiso ha per me una forte relazione con la libertà di espressione, Nero la ha con la cura e l’attenzione.

Oggi come ti orienti per la scelta della macchina con cui realizzare un progetto?

La scelta è sempre una questione funzionale e espressiva. Non mi interessa dare punti di riferimento sul mio stile, non voglio essere identificato in una forma estetica. Non sono un foto-giornalista, ma credo ugualmente che la mia fotografia abbia una funzione sociale, vorrei che stimolasse una reazione, per questo ritengo fondamentale non affezionarsi troppo all’immagine di sé, non sentirsi comodi, non specchiarsi nel proprio lavoro. In generale, scatto i miei lavori personali in pellicola e lavoro in digitale solo su commissione. Inoltre, vado in giro sempre con macchine molto piccole. Fotografare è un atto violento e io cerco di essere più discreto possibile. Se invece sono davanti a persone con cui ho già una relazione, preferisco il mezzo tecnicamente migliore. Non ho regole fisse, uso di tutto a seconda delle necessità. La macchina fotografica è un mezzo tecnico per esprimersi, non una religione.

Come sei riuscito a conciliarti con la violenza insita nell’atto del fotografare?

Non so se ci sono riuscito, so che oggi la metabolizzo meglio. Porto sempre la macchina fotografica con me, ma non devo usarla per forza. Prima fotografavo in maniera compulsiva e a volte mi sentivo in colpa. Adesso ho delle motivazioni più chiare, quindi sono più responsabile. Prima di scattare mi domando sempre se lo sto facendo per un motivo valido o perché sono accecato dalla spettacolarità di quello che vedo. Se sai di avere un motivo, diventi più convincente nel chiedere il permesso e vivi più tranquillamente un rifiuto o una reazione infastidita. A volte sono anche molto invadente: se hai delle ragioni autentiche devi assumerti la responsabilità delle tue azioni, altrimenti rischi di non scattare mai. Altre volte, provo una grande soddisfazione nel non scattare in una situazione in cui “dovrei” farlo ma non me la sento.

Dal 2008 hai lavorato anche a Ultimo domicilio, una lunga ricerca sul concetto di casa e su diverse tecniche di ripresa e di stampa. Come si è sviluppato il progetto?

È scattato in cinque case diverse, che ho conosciuto per varie ragioni e che dicono molto anche di me. La scelta dei diversi formati non è un’esibizione-campionario di diverse possibilità tecniche, ma il frutto di una ricerca sullo strumento più appropriato ad ogni situazione. Sono tutte case che non esistono più, a parte una, quella di Finale Ligure, che per me è la madre di tutte le case. E di proprietà di una famiglia appartenuta all’aristocrazia militate italiana: nella soffitta c’è ammassata la storia d’Italia, oggetti di ogni tipo, animali impagliati, maschere mortuarie, annotazioni risalenti al Ho scelto il banco ottico per fotografarla perché per me aveva senso mostrare ogni singolo dettaglio. La seconda è stata per 25 anni la casa di Adam Cohen, filmmaker ebreo newyorkese e mio carissimo amico: una sorta di piccolo museo di cose che “fanno casa”, di antidoti allo sradicamento. Per questa parte del progetto ho scattato in 35mm, il formato migliore per definire il movimento e l’instabilità, e poi ho lasciato le foto nel fissaggio per giorni, perché volevo restituire il senso di qualcosa che resistesse, al tempo e alla precarietà. La terza in realtà erano due case: una a Sarajevo e l’altra a Mostar. A distanza di quindici anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, ho deciso di andare a vedere cos’era rimasto e di cercare una casa abbandonata durante la guerra che si fosse mantenuta intatta negli anni. Per fotografarle ho scelto una Rolleiflex perché il formato quadrato rimanda a una circolarità, e io volevo rendere percepibile una sorta di quadratura del cerchio. Poi, per caso, mi è caduto del caffè su una foto e allora ho deciso di lasciare quelle stampe in pasto a vari agenti organici che divorano le cose e le trasformano in qualcos’altro, come la guerra. Poi c’è la casa di una signora, a 30 km da Parigi, lasciata intatta dal figlio da quando, sei anni fa, la madre è scomparsa. Infine c’è la casa dove ho vissuto a Cracovia, l’unica casa che sia mai stata davvero “mia”. L’ho fotografata nelle due ultime settimane prima di lasciarla, sempre in 6×6: attraverso quella casa, stavo raccontando una fine e, allo stesso tempo, un punto di partenza. Queste case contengono molto di tutto quello che ho cercato “fuori” in anni di girovagare alla ricerca di me e del mio posto, e altrettanto parlano di quel territorio condiviso fatto di immagini, libri, e piccole cose che rivelano) la nostra origine comune.

Hai sempre collocato la tua storia personale, e il tuo corpo, all’interno della tua ricerca fotografica. Quando, secondo te, l’autobiografico diventa narrativamente interessante?

Quando si riesce a parlare di ciò che si conosce, dei propri impulsi, delle proprie paure, creando una tensione tra sentimenti contrastanti. Per percepire questa tensione, bisogna esserne parte: Anders Petersen mi ha insegnato che quando si fotografa una donna, se non la si desidera, se lei non desidera chi la fotografa, la fotografia non funziona. In più, calarsi all’interno della propria ricerca aiuta a collocarsi sullo stesso livello dei propri soggetti. Non essere solo “quello che ha la macchina” ma anche quello che la rivolge contro di sé. È un gesto di fair play nei confronti della realtà che si ha intorno: se si vuole guardare solo all’esterno senza mai guardarsi dentro, si finisce con l’assumere un atteggiamento da entomologi. In questo percorso, l’autoritratto per me ha assunto un ruolo fondamentale: per molti anni ho avuto difficoltà a riconoscere la mia faccia, così ho provato ad affezionarmici rileggendola attraverso la fotografia. Avere più compassione per sé significa anche avere più compassione per gli altri.

Questa esplorazione della tua intimità ti è servita quando sei entrato nell’intimità di altri soggetti?

Assolutamente. Soprattutto lavorando a No Peace Without War, il primo progetto che mi ha davvero portato nell’intimità di qualcun’altro in modo continuativo ed esclusivo: Ewa e Piotr Sosnowski, due fratelli che vivono insieme a Cracovia da sei anni, nella cui storia di assecondato declino rivedo il mondo di cui facciamo tutti parte.

Hai lavorato in casa loro per tre anni. Come hai costruito la relazione tra voi?

Ho incontrato Ewa la prima volta per strada, quando vivevo a Cracovia. Era elegante, sofisticata. Mi ha affascinato subito, e ho provato ad avvicinarla e a fotografarla senza alcun risultato nel corso di due anni. Poi, un giorno ho saputo da un’amica che una donna aveva provato a venderle delle vecchie foto scattate dal padre. Era Ewa. Così sono riuscito ad avere un appuntamento con lei e le ho chiesto di poterla fotografare con una certa continuità. Lei ha accettato, infastidita, in cambio di soldi, e mi ha immediatamente invitato a casa sua. Quando sono entrato mi si è aperta la porta di un mondo che era la rappresentazione di uno stato mentale: tutto era decaduto, fatiscente, marcito, non c’era energia elettrica da quattro anni, né gas e acqua calda. Steso su un divano, impassibile e ubriaco, c’era suo fratello Piotr. Da quel momento in poi sono tornato regolarmente nell’appartamento. Io volevo fotografarli, e loro volevano il mio aiuto, ma il nostro rapporto è diventato più di questo: abbiamo cominciato a conoscerci, a volerci bene. Una relazione umana cresciuta nel tempo.

Oltre ai tuoi scatti, hai inserito nel progetto anche le loro fotografie di famiglia. Perché?

Un giorno sono entrato in casa loro e ho trovato sparse sul pavimento centinaia di lettere, cartoline e fotografie. Erano belle. Gli ho chiesto di darmele perché non volevo che andassero perse, distrutte o vendute. Gli ho proposto di usarle mettendole in relazione a quelle scattate da me e gli ho promesso che se fossi riuscito a farne qualcosa avrei pagato il debito che avevano con la società dell’energia elettrica. Non volevo raccontare la loro storia filtrandola solo attraverso le mie parole o la mia interpretazione razionale. Le loro foto mi hanno dato la libertà di reinventare, perché la verità non è letterale. Questo progetto si è poi sviluppato in un documentario. Perché hai sentito la necessità di passare dalla foto al video? Con il mio amico Adam Cohen abbiamo filmato per un mese dopo anni di frequentazione con Ewa e Piotr: sono passato al video perché dopo averli fotografati tanto a lungo volevo dar loro voce. Mi sembrava il modo migliore di aprirsi al loro mistero senza forzare il racconto.

Il tuo ultimo progetto, Moving, Pathetic & Ridicolous, comprende foto scattate dal 1994 a oggi, ed è tutt’ora in corso. Come si è evoluto nel corso del tempo?

Il soggetto è la mia vita, noi stessi, l’identità europea, la definizione di un territorio metafisico. Il titolo non è ancora definitivo, come del resto tutta la struttura del lavoro. Ho cercato di collocare storie diverse sullo stesso piano: passato e presente, la mia storia personale e una storia che chiunque può riconoscere come propria. E’ il diario di un’educazione sentimentale, realizzato attraverso undici anni di vita. La scelta dei soggetti e delle foto da inserire nella selezione non si basa mai su aspetti estetico formali, ma sempre sul peso emotivo dell’immagine. E’ un lavoro impegnativo, che ha bisogno di tanto tempo per maturare. Di sicuro è la cosa più vicina a quello che avevo in mente quando ho cominciato a fotografare, ma temo di non sapere quando sarà un lavoro concluso, compiuto, definito.

Lavorando in una chiave strettamente reportagistica si ha una grammatica più chiara di riferimento. In un progetto come questo, invece, come ti orienti nell’editing?

Considero una foto riuscita quando mi piace come se non l’avessi fatta io. Qualsiasi foto a cui mi affeziono per motivi sentimentali muore quando questi motivi vengono meno. Solo quando una foto mi sorprende riesce a durare nel tempo. Moving, Pathetic & Ridicolous si basa sulla sedimentazione e le immagini di questo tipo, è una storia che ancora non ha un assetto stabile, di cui cambio l’editing una volta a settimana. È una selezione che immagino come una sequenza cinematografica più che fotografica, ma fare un film richiede molta precisione nell’esprimere quello che si vuole dire…

C’è una caratteristica che, secondo te, contraddistingue i fotografi della tua generazione rispetto a quelle precedenti?

Faccio un po’ fatica a confrontarmi con una lettura “generazionale”, perché mi interessano solo le cose fuori dal tempo. Amo I demoni di Dostojevski e Pulp Fiction allo stesso modo. E per la fotografia è lo stesso: gli autori prescindono dagli anni. Io faccio del mio meglio per essere me stesso, ma il resto è fuori dal mio controllo.

Hai 37 anni. Che fotografo diventerai quando sarai vecchio?

Magari avrò smesso di fotografare perché non avrò più niente da dire. Oppure mi sarò dedicato solo ai film e ai documentari. O ai ritratti col banco ottico di ghisa. Spero di essere stato capace di togliere, di mirare all’essenziale. Tenere solo l’energia e lasciarmi il resto alle spalle.