INTRODUZIONE
di Irene Alison (2013)

La prima volta che vidi mio padre piangere non capì bene il perché. Parlava di un posto dove gli uomini erano legati ai letti. E le donne portavano capelli lunghissimi e spettinati. Parlava piano, perché in quel posto succedevano cose che era meglio io non sentissi. Ma parlava abbastanza forte perché io oggi ricordi la sua voce crepitare. E spezzarsi in pianto. Molto tempo dopo, sono arrivata in quel posto. Chiuso ufficialmente nel 1983, l’Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi sta arroccato, con la sua mole immensa, al centro della città di Napoli. Duecentoventimila metri quadrati di padiglioni, stanze, corridoi, ambulatori, nei quali, dal 1897 al 1995 – quando la magistratura aprì un’inchiesta sulla permanenza ufficiosa nella struttura di centinaia di pazienti dodici anni dopo la chiusura, e mio padre, psichiatra, fu incaricato di eseguire le perizie per valutare la loro condizione – si sono sedimentate le storie di quello che è stato il più grande manicomio del meridione d’Italia. Dietro le sue mura, per oltre un secolo, sono vissute migliaia di anime. Hanno varcato il portone – per non tornare più indietro, e perdersi nella città dei folli – uomini e donne malati e sani, mogli ripudiate, ragazze madri, fratelli sgraditi, anziani di cui liberarsi prima del tempo. Ogni minima deviazione dalla norma, ogni individuo scomodo, ogni indesiderabile “peccatore” poteva trovare “asilo” qui, in questo microcosmo così prossimo al mondo ma così remoto, e qui essere dimenticato. Dietro le sue mura una comunità autosufficiente, formata da pazienti, medici, infermieri e suore, ha consumato il proprio quotidiano e i propri riti, ha alimentato una città nella città con propri laboratori artigiani, propri campi da coltivare, proprie chiese in cui pregare, persino propri teatri: dalle scarpe al pane, dai libri stampati nella tipografia alle rose coltivate nel giardino del direttore, tutto veniva creato e consumato nel confine del manicomio. Dietro le sue mura sono nati bambini: figli di stupri o di amori clandestini consumati in fretta al riparo dagli occhi vigili delle suore, poi strappati alle loro madri e adottati ufficiosamente da caritatevoli infermiere. Oggi il Bianchi è una città fantasma. I muri scrostati e la ruggine dei cancelli, la natura riottosa e selvaggia dei giardini, il silenzio polveroso delle stanze chiuse, custodiscono la memoria come un segreto. Il Bianchi è un labirinto. È un mistero. È un enorme monumento al ricordo. Una vertigine tra passato e presente. È un regno di ombre, dove il sole entra per disegnare fasci taglienti di luce. Dalla mia fascinazione per questo luogo, dalle mie confuse memorie d’infanzia e dall’eco misteriosa provocata in me dalla parola manicomio, che mio padre pronunciava in mia presenza a mezza voce, è nato il bisogno di varcare la soglia del Bianchi. Dalla comunità di intenti e di sensibilità trovata con un fotografo, Lorenzo Castore, con cui ho condiviso motivazioni e ispirazioni, è emersa la possibilità di rileggere questo luogo artisticamente. Ma come ridare vita agli spazi vuoti? Come trovare delle corrispondenze non lineari tra l’immanenza del presente e la rievocazione del passato? Come far parlare i muri? La nostra risposta è passata per la rioccupazione creativa del manicomio e per la sua libera reinterpretazione da parte di un gruppo teatrale composto da pazienti psichiatrici, che hanno portato nei luoghi del Bianchi il loro vissuto, e la loro capacità di rappresentarlo. Gli attori hanno improvvisato partiture fisiche sulla base di una riscrittura emozionale de Il Sogno di August Strindberg: le linee del testo ci hanno aiutato a far emergere tensioni e memorie – paura, desiderio, dolore, rabbia – e a tradurle in atti, a creare nuove interazioni con lo spazio, raccontandolo col gesto, con la presenza, con la dialettica tra i corpi. Insieme, gli attori hanno rievocato fantasmi e acceso nuove scintille. Hanno sollevato la polvere degli anni e si sono lasciati attraversare dall’anima del luogo. La macchina fotografica, che ha documentato espressionisticamente l’azione teatrale, ha cercato di inventare un territorio altro, in cui superare il confine tra presenza e evocazione, traducendo l’emozione in luce, forma, colore. Costruendo un racconto di amore e di scoperta, di ricerca e di memoria. Insieme alle immagini, abbiamo registrato i suoni delle azioni: respiri, risate, grida, passi, sussurri. Uno spartito che fa da tessuto connettivo alla visione, arricchendo, in una relazione a volte sincronica a volte diacronica, di sensi e di intenzioni la lettura delle foto.